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MULHOLLAND DRIVE – 2001 DAVID LYNCH
La sala è buia. L’ultima parola che riecheggia nell’aria è un sussurro: “Silenzio…”
Le luci si accendono. Il distinto signore sulla cinquantina che mi siede dietro alzandosi mi chiede: “Che cosa diavolo abbiamo visto?”. Già, che cosa?
Mulholland Drive, è bene dirlo subito, è un film lynchiano al cento per cento, per questo, chi va al cinema solo per seguire una storia lineare, o quantomeno di immediata assimilazione-comprensione, è bene che se ne tenga alla larga, pena reazioni forse leggermente peggiori del signore a cui ho accennato sopra. Ogni volta che ci si trova davanti ad un’opera di David Lynch, bisogna sempre cercare, alla fine, di ricostruire tutte le complesse relazioni che si trovano al suo interno: in questo senso, Mulholland Drive è campione di complessità, ancora più del precedente Strade Perdute, dove l’ambiguità risiedeva nell’identità del protagonista. Qui infatti, l’autore non si limita a confondere le apparenze, ma arriva a scambiare le vite (i volti? le storie? le percezioni?) di due (tre?) donne. Quelli di Lynch sono sogni, ma più spesso incubi, ad occhi aperti: il tempo viene annullato, la logica destrutturata, gli avvenimenti accadono come per inerzia, la realtà non è mai vera e la verità sta nell’assurdo. Si gioca continuamente con la memoria e l’attenzione dello spettatore, che viene sfidato a decifrare, o quantomeno a cercare di entrare nella suggestione della pellicola. Questo si può fare davanti ad un film di Lynch: arrendersi, desistere dal voler capire, ed essere risucchiati in un universo di passioni e illusioni affascinanti. Il momento della riflessione avviene solo alla fine: che cosa ho visto? Cosa significa quella scena, quel simbolo, quel gesto? Riflettere sul fascino dell’atmosfera che viene creata è fuorviante, ed anche farlo sui personaggi in se stessi. Ogni personaggio è un simbolo-personificazione dell’intenzione dell’autore di mostrare qualcosa, un messaggio in codice che ci deve arrivare attraverso l’inconscio. Non deve avvenire, cioè, una razionalizzazione da parte nostra. Quello che deve rimanere in noi deve farlo in modo istintivo.
Mulholland Drive è un film doppiamente spiazzante, perché parte in maniera quasi lineare, procede così per tutto il primo tempo e per parte del secondo, approdando poi nella parte più complessa e carica, affrontandola in modo sempre più veloce e disturbante.
A livello più elementare, il racconto riguarda una misteriosa donna, che, coinvolta in un incidente stradale e senza memoria, entra nella vita di una giovane attrice. Accanto a questa vicenda, ne accadono altre destinate ad esserne intrecciate: un killer maldestro, un regista la cui vita viene sconvolta da un inquietante produttore (e da un enigmatico cowboy), un uomo che ha la visione di un essere orrendo che abita in un vicolo. Come si può ben intuire, tutto va oltre i limiti del reale e del possibile; lo stile di Lynch è sempre lo stesso, squisitamente raffinato e geniale, fatto di inquadrature fisse spesso interrotte da repentini primi piani sui volti e sugli occhi dei suoi personaggi, di lenti gesti insensati e per questo spaventosi, di piani sequenza che rivelano la dimensione metacinematografica dell’opera. Perché questa, in fondo, può essere una delle spiegazioni del film: una analisi ironica e beffarda del sistema hollywoodiano, raccontata con sottile garbo caustico. Ma Lynch non si ferma qui: nella meravigliosa sequenza del teatro si riflette sull’arte, sull’apparenza, sulla falsità, sul rapporto e sulla differenza tra due modi di creare mondi. Il personaggio-guida, sul palco, dice: “Playback. E’ tutto un nastro registrato” e tutto si confonde, svanisce, anche ciò che ci sembra genuinamente vero e tangibile si rivela un ennesimo artificio.
Mulholland Drive è la sublimazione di un progetto per una serie TV: il film è l’episodio pilota, completato poi dall’autore per fargli acquistare vita propria. E’ certo più complicato e criptico di Twin Peaks, ma i personaggi che lo abitano, dal primo all’ultimo, non sono certo meno interessanti. Il dispiacere può essere dato dalla sensazione che molte altre cose sarebbero potute essere raccontate, e molte figure avrebbero potuto essere utilizzate più in profondità (i due investigatori, Louise, il produttore nano paraplegico, l’uomo nero, il killer…). Quello che però in fondo consola pienamente è il fatto che come opera cinematografica ha un respiro e un messaggio certamente più ampi: non sapremo mai come sarebbe stata impostata la serialità, ma Lynch ci ha regalato anche questa volta un tassello unico ed inestimabile del mosaico che da anni va costruendo, fatto di ossessioni, figure ricorrenti, atmosfere rarefatte e vortici narrativi inquietanti.
Giacomo Lucarini
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ah: laura harring è una donna meravigliosa
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nevvero Luca?
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Bellissimo il film e bravissimo Guts. Ho appena (finalmente) visto il film e devo dire che la recensione e' semplicemente perfetta
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ma 'ndo è finito 'sto qua?!
il tizio della recensione intendo...
ha cambiato per caso nick?!
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